“Contiamo come polvere sulla bilancia, come goccia da un secchio”.
Isaia 40,15

Riflessioni dopo l’esperienza al dormitorio Emergenza Freddo (chiuso il 3 aprile)
A giovedì alterni ho gettato uno sguardo, attento sì, ma non profondo, sul mondo parallelo, invisibile, dei senza dimora. Ghetto esistenziale. Tanti stranieri/e (giovani), meno italiani/e (di età più matura), tutti feriti dalla vita in modi diversi. Lo sguardo spesso duro, in genere soli, spesso arrabbiati e diffidenti, raramente hanno voglia di parlare, non chiedono nulla. Si sono aperti ad un sorriso solo quando sono riuscita a salutarli per nome. Esseri umani “chiocciola”, tutto ciò che hanno è conservato e portato sempre con sè in una borsa di plastica o, se va bene, in uno zaino. Ma anche per mettere al riparo in un ripostiglio durante la notte queste poche cose dipendono da altri, da noi volontari, sono esseri umani “senza chiavi”. Senza uno spazio proprio. Le donne discutevano persino per dividersi il poco spazio sul calorifero per far asciugare la biancheria sciacquata per il mattino dopo. Ma senza dimora è diverso da senza tetto. Senza tetto è chi rimane senza casa, per esempio dopo un terremoto. Questi sono senza dimora, che significa ben più e ben altro che essere senza casa. Dimora è il luogo (ma anche il tempo) di riferimento della propria identità relazionale, il punto da cui partire e a cui tornare ogni giorno, lo spazio in cui proteggere e ricostruire quotidianamente se stessi, lo spazio per star soli o per una condivisione scelta e non imposta, di integrazione del sé, un rifugio, un luogo intimo, da gestire autonomamente, dove fermarsi, riposarsi, prendersi cura di sè, del proprio corpo, delle relazioni, e anche delle cose (per esempio la biancheria). Manca uno spazio per l’anima. Ci pensavo la mattina presto, quando li osservavo lasciare il dormitorio, uscire di nuovo sulla strada, ancora buia, vuota e silenziosa, e sparpagliarsi verso i loro circuiti di sopravvivenza, luoghi liminali, non-luoghi di passaggio (stazione, portici, entrate di supermercati, ospedali, chiese), gli interstizi della città, la giornata scandita dagli orari rigidi dei servizi (mense, dormitorio), ma anche fatta di tempo dilatato fino a perdere significato. E pensavo agli altri 250 che quella notte al dormitorio non avevano neanche avuto accesso, …per fortuna è stato un inverno mite. Li immaginavo nel loro stato di perenne allerta e difesa, senza privacy, sotto lo sguardo veloce dei passanti, che guardano, non vedono, rimuovono e dimenticano, volti deumanizzati, resi vuoti a perdere.
Mentre io, sì, la mattina lasciavo il dormitorio e tornavo a casa mia, dalla mia famiglia, a farmi una bella doccia calda e a cambiarmi.
Ora mi viene da pensarli spesso, soprattutto la sera, quando mi infilo nel mio letto, o la scorsa settimana, quando mi son toccati due giorni di mal di pancia e diarrea. E mi trovo davanti a tanti interrogativi per i quali non ho risposte, o le evito. Ancora una volta sento l’ingiustizia, perché non vedo valori o colpe, meriti o demeriti, abilità o incapacità dietro le nostre condizioni tanto diverse e così distanti, una distanza che percepisco come incolmabile, insormontabile. E’ stato faticoso per me, anche se eravamo stati informati prima su questo dato di fatto, non riuscire a stabilire relazioni simmetriche, …semplicemente non si riesce, men che meno con un turno ogni due settimane. L’impressione, forse sbagliata, è quella di partecipare ad un servizio flebile e ad una solidarietà effimera, un po’ appiccicati lì, troppo deboli per smuovere pietre dai sepolcri. Ma si può fare altro? Di più? Sono raggiungibili? Come avvicinarsi e colmare la distanza? C’è l’inevitabile asimmetria delle relazioni d’aiuto, e l’insormontabile asimmetria delle storie, una distanza che non posso colmare facendomi senza dimora, non ho vissuto i percorsi che li hanno portati lì, la retrocessione fino all’esclusione sociale, la spersonalizzazione, la destrutturazione, la rarefazione e atrofizzazione dei legami affettivi, la progressiva perdita di reti sociali, di beni, di opportunità e quindi di prospettive e possibilità di influenza sul proprio futuro. Non sono neppure riuscita ad ascoltare, raccogliere e conservare davvero le loro storie, se non in brevi spiragli, e sono rimaste lì, sospese. Forse sarebbe necessaria una continuità di relazione nel quotidiano, che vada oltre l’incontro a turni, ma come infilarla nella mia vita? E una relazione così sarebbe faticosa e rischiosa, potrebbe chiedermi di aprire porte, di rinunciare, di far posto, di rompere equilibri, di cambiare.
Pensandoci meglio, però, l’asimmetria è data soprattutto dal mio non sentirmi e riconoscermi bisognosa d’aiuto e di accoglienza quanto loro, magari proprio da parte loro.
Sulla vergogna per la mia piccolezza inutile, sul senso di colpa per la pigra inerzia del mio benessere splende la profezia dei poveri. Se profezia è la luce del presente che illumina il domani, allora sono grata per questa esperienza e questi fugaci incontri: che continuino a farmi sentire il mio limite, e a turbare e mantenere sempre in cammino, inquieta, e mai in pace la mia coscienza.